4 novembre. La Festa della Vittoria. Quando eravamo bambini delle elementari, la festa del 4 novembre si chiamava così. Vittoria, una parola chiara, semplice, omnicomprensiva, di cui allora nessuno si vergognava, nemmeno – pensa un po’ – i comunisti. Perché nelle trincee del Carso avevano combattuto anche loro. A Vittorio Veneto c’erano arrivati anche loro, sputando sangue.

Il Risorgimento l’avevano combattuto e sentito tutti. Trento e Trieste. La Patria. Come dice un mio amico, la nozione definitiva di Patria l’abbiamo ricevuta tutti allora, e dopo nel ricordo di allora. Loro, i nonni, accompagnando i figli e nipoti al Sacrario di Redipuglia. Noi, i nipoti, seguendoli rispettosi, pendendo dalle loro labbra ascoltando i loro racconti.

Mio nonno Gaetano la Grande Guerra se la fece tutta da furiere di fanteria. E vide per la prima volta i suoi primi due figli quattro anni dopo averli messi al mondo. Mia zia più grande, all’età di sei anni, manca poco non lo riconosceva, quando tornò a casa in congedo definitivo.

Mio bisnonno Stefano era di stanza in Albania a Valona, nella provincia che avrebbe aggiunto alla corona del Re d’Italia il primo diadema dopo quelli di Trento e Trieste, atti quasi dovuti per onorare la memoria risorgimentale. Tornò a casa, e non so se mio nonno Angelo lo riconobbe subito. So solo che a sedici anni il nonno si ritrovò orfano, perché suo babbo non sopravvisse alla malaria contratta in guerra. Allora delle malattie epidemiche si moriva, a differenza di adesso, che ci si spaventa di un trentasette e cinque.

La mia Patria sono loro, prima di tutto. Mi chiamo Borri in onore loro, e spero che mio figlio un giorno erediterà questo cognome con lo stesso onore. Sono andato a mia volta a servire la mia Patria con una sola motivazione: fare il mio dovere, e non disonorare chi l’aveva fatto prima di me, con lo stesso cognome.

A Redipuglia ci passo davanti ogni volta che andiamo a Trieste. Non ci sono mai entrato, ma non mi serve. Sono tutti nel mio cuore. Finché non verrà il giorno di presentarmi davanti a loro, cercando di eseguire in loro omaggio e rispetto il saluto militare così come me l’hanno insegnato.

Nel frattempo, mi vergogno di far parte della generazione di debosciati che siamo. Non solo perché abbiamo disperso tutto il patrimonio lasciatoci da loro, le generazioni precedenti, ma anche perché a far fronte a questa ridicola evenienza del coronavirus ci stiamo presentando come una manica di uomini e donne senza spina dorsale, senza niente dentro se non la nostra paura di adolescenti mai cresciuti. Quali siamo dal 1968 a questa parte.

4 novembre, i ricordi di famiglia non finiscono qui. Nel 1966, Firenze andò in ginocchio sotto l’onda di piena dell’Arno. Mio padre fu uno dei pochi funzionari a cui fu affidata la ricostruzione di Firenze ed il soccorso alle attività produttive devastate dall’Alluvione. Mio padre e pochi altri ebbero in mano fondi illimitati e carta bianca, e posso testimoniare giurando sulla vita mia e quella di mio figlio che non gli restò attaccata alle mani una sola lira.

Un gigante, al quale nessuno ha mai eretto un monumento. Il monumento è dentro di me, per sempre. Talmente imponente da avermi spinto – forse presuntuosamente – a seguire la stessa sua strada, cercando di assomigliargli, di essere come lui. Di fare quello che aveva fatto lui.

Come se fosse stato possibile. Ho combattuto per tutta la mia vita lavorativa con la maledetta classe dirigente che i “progressisti” dalle pance piene hanno mandato sistematicamente al potere in questa disgraziata città che dopo l’Alluvione ha conosciuto ben altre devastazioni. Ho sempre perso, contro le mafie – di qualunque colore siano – non puoi vincere. Ma ho onorato una volta di più la mia Patria. Quella che mi aveva mostrato mio padre, figlio di suo padre, tenendomi per mano da bambino quando mi portava all’ufficio nelle sere in cui non sapeva a chi lasciarmi mentre lui doveva fare gli straordinari perché c’era gente a cui bisognava ridare fiducia, speranza, sopravvivenza. Gente che molti anni dopo ancora gli telefonava a casa per ringraziarlo. E io lo sentivo rispondere al telefono, imbarazzato, senza sapere come fare a spiegare che aveva fatto solo il proprio dovere.

Questa è la mia Patria. Ne sono orgoglioso, le sono devoto finché vivrò. La Patria che ho vista disegnata nella mascella indurita di mio nonno Angelo, quando ci vedeva a tirarci la farina fuori di scuola.

«Ho portato tuo padre con me attraverso le linee tedesche per andare a comprare la farina al mercato nero, aveva neanche dieci anni….», mi disse una volta. E bastò. Mi vergognai come un cane. Non gli ho mai chiesto scusa, ma se è ancora lassù in cielo a guardarmi e a benedirmi, sa che almeno ho imparato la lezione. Mio figlio Giacomo sa che il nostro nome, e quello che ha significato portarlo addosso per le nostre generazioni, è un dono prezioso. E’ la nostra Patria. Glielo lascio così come l’ho avuto.

Viva l’Italia. E chi ancora non si vergogna di chiamarsi italiano. E di combattere per esserlo.