Lo sento sempre quando il ponte dell’arcobaleno si sta riaprendo. Lo sento prima, quando l’inquietudine che provo tutti i giorni nel vedere uscire i miei gatti di casa o nel lasciarli soli si fa più intensa, pressante. Lo sento quando è aperto, è come avere la sensazione del mirino di un arma puntata addosso. Non so dove colpirà. So solo che colpirà. Che colpirà noi.

La sera prima, parcheggiando la macchina a casa, mi ero preso a bordo Oliver perché non rimanesse nel raggio d’azione delle ruote. Avevo notato con piacere la sua paura, la voglia di allontanarsi da quel mostro infernale. Bene che abbia paura, mi dissi. Ero semmai più in apprensione per Nemo, il temerario incosciente che va sempre a giro per le strade incurante dei pericoli rappresentati dalle bestie a due zampe che vivono dalle nostre parti.

Non immaginavo che il mirino era invece già puntato su Oliver, che aveva poco più di dodici ore di vita. Non immaginavo che stava per andare in onda la replica di un film di due anni prima. Il piccoletto addosso per tutta la notte, la prima carezza al suo e mio risveglio, senza sapere che sarebbe stata anche l’ultima. Che era l’ultima volta che lo vedevo in questa vita.

Quando ho visto la macchina di Paola – dopo appena qualche minuto da che era uscita – di nuovo parcheggiata nel vialetto di casa, di traverso e senza la precisione consueta, il presentimento che avevo da giorni si è fatto sostanza. Potevano esserci mille motivi, dagli occhiali dimenticati a qualunque banalità. Ma io ho il sesto senso per le disgrazie. Sapevo già cos’era successo e cosa mi si sarebbe parato davanti agli occhi pochi istanti dopo.

Ho visto l’ombra gelida della Morte di nuovo proiettarsi su casa nostra, prima ancora di scorgere l’ombra di lei che risaliva le scale all’ingresso. Con Oliverino in braccio, come quando crollava dal sonno e ti saltava su chiedendoti di farlo addormentare. Stavolta dormiva già, come un angioletto. Aveva gli occhietti già chiusi.

Quel film lo abbiamo visto tante di quelle volte da sapere le battute a memoria. Quelle che ci siamo scambiati anche stavolta, in cerca di una spiegazione che non c’é.

Oliverino adesso è accanto a Ulisse, Romolo ed Alma. Presto l’erba ricoprirà anche la cuccia del suo eterno riposo, mentre gli altri gatti ancora vivi per un po’ di tempo sosteranno lì sopra o lì vicino come in attesa di qualcuno o qualcosa, ritardando il momento del ritorno in casa…..

Ci guardano, le nostre bestiole. Mute domande, senza risposta. Chissà cosa pensano…… se ogni volta sono capaci di perdonarci il fatto di non aver saputo proteggere i loro compagni che non tornano più.

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Mai vista una tale concentrazione di vitalità, in un esserino di mezzo metro scarso e poco più di due chili. Lui era il Figlio del Vento. Quando andammo alla colonia felina a scegliere un gattino per riempire il vuoto in casa lasciato dai quattro che avevamo perso da poco, appena aprirono il box lui saltò fuori per primo. Come Jesse Owens, come Lewis Hamilton, bruciò tutti sullo scatto, ci corse incontro e dette il via alla prima di tante meravigliose baraonde con le quali da allora ci avrebbe allietato la vita.

Con quegli occhioni spalancati che parlavano – anzi, miagolavano – da soli, gli orecchi e la coda perennemente ritti ed il corpicino a missile, sembrava un cartone animato esilarante, di quelli della Walt Disney. Oliver, ci dissero che si chiamava. Oliver & company, decidemmo, per restare in tema. Lì in disparte, apparentemente più tranquilla, c’era infatti una gattina bianca e nera come lui, sembrava sua sorella e chissà se lo era davvero. Li prendemmo tutti e due e ci portammo a casa la nostra Walt Disney Productions.

37695321_2432583883419154_6190970150573834240_oDopo tante tragedie, sembrò iniziare finalmente un periodo di serenità e perché no, anche di divertimento. I due piccoli diavoli si ambientarono subito, i grandi li accolsero con sufficienza, accorciando i tempi dell’inserimento. Dopo due giorni la gattina, che avevamo chiamato Noa (in giapponese è una parola beneaugurante, significa più o meno pace e prosperità), aveva già capito come uscire dalla gattaiola sulla porta d’ingresso, con una sua personalissima tecnica alla Fosbury. Oliverino invece ci avrebbe combattuto per tutto il resto dei suoi giorni. Riusciva anche lui ad uscire (e chi lo teneva….), ma dopo aver ingaggiato lotte furibonde col portellino per interi minuti.

Il nostro cartoon familiare trasformò fin da subito la nostra casa in un set cinematografico. Il nano – così fu soprannominato fin da subito – non stava mai fermo, riusciva a saltare e a salire dappertutto, giocava in continuazione, sembrava non stancarsi mai, faceva un casino infernale. Un meraviglioso casino infernale.

59521231_2949074871770050_316357550037532672_oChiedeva da mangiare in continuazione, eppure rimaneva piccolo. Ben presto fu chiaro che sarebbe stato per sempre il piccolo di casa. I veterinari ci dissero che per qualche ragione forse aveva del malassorbimento. Da allora, Oliverino ebbe le sue ciotole speciali (che poi toccava condividere con gli altri, perché la ciotola del gatto vicino è sempre più buona), e facemmo di tutto perché crescesse sano ed il più robusto possibile anche lui. In questi giorni avrebbe dovuto passare gli esami di controllo, da cui ci aspettavamo risposte positive. Non le avremo mai, il suo libretto sanitario resterà nel cassetto come ricordo assieme a quello di altri dodici mici prima di lui.

66271132_3091228634221339_8885027385292881920_oLui correva, e correva e correva. Dentro e fuori, nelle scatole, nei cassetti degli armadi, sulle librerie. Dormiva tardi, quando proprio non ne poteva più, e come i bambini faceva fino all’ultimo la lotta con il sonno. Ti chiedeva di prenderlo in braccio e poi ti guardava esausto, con le palpebre che finalmente si abbassavano e gli occhi che si chiudevano, crollando in preda ad un sonno da cui comunque si sarebbe risvegliato non molto tempo dopo. La notte cercava di entrare sotto le nostre coperte e di rannicchiarsi contro di noi, era freddolosissimo. Cercava ancora la mamma, e per lungo tempo aveva simulato con Paola la poppata e la breve quiete di un neonato sazio. E poi ripartiva, magari dopo aver svegliato gli altri perché giocassero con lui. O perché gli dessero una mano a svegliare noi, all’alba, all’ora delle ciotole e dei croccantini.

Oliver era Oliver, così come Ulisse era stato Ulisse. Ma come succede con le persone, a volte anche gli animali si rassomigliano, caratterialmente. A volte anche in modo impressionante. Nemo sembra la reincarnazione di Mario Joyce. Questo piccolino invece sembrava in certi momenti la reincarnazione di quell’altro piccolino portatoci via due anni fa dalla strada, e dagli esseri umani maledetti che la percorrono. Avevo notato le somiglianze con piacere da un lato, ma con una inquietudine sempre più crescente. La sottile angosciosa sensazione che la somiglianza potesse spingersi fino alla conclusione anche di questa storia.

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Sembra che quando ho dei presentimenti negativi, essi siano sempre destinati ad avverarsi. Quella mattina, come Ulisse, Oliverino uscì di casa pieno di entusiasmo e vitalità, correndo come un matto davanti a Noa e Pepe, i suoi compagni di gioco. Quelli che qualche ora dopo sarebbero tornati.

Lui no. Adesso è la tredicesima foto di un collage che mi sembra impossibile aver messo insieme in poco più di dieci anni. Non so che maledizione possano avere addosso le nostre bestiole. La mia è quella di essere sopravvissuto a tutti loro. Nel silenzio di questa casa dove adesso non c’é più rumore, e non c’é più vita.

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